LA TERRAZZA
LA TERRAZZA
- ETORE SCOLA (1980)
FICHA TÉCNICA
TITULO ORIGINAL La terrazza
AÑO 1980
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 150 min.
DIRECTOR Ettore Scola
GUIÓN Ettore Scola, Furio Scarpelli, Age
MÚSICA Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Jean-Louis Trintignant, Serge Reggiani, Stefania Sandrelli, Ombretta Colli, Carla Gravina
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Dean Film / Cocinor / Marceau
PREMIOS 1980: Festival de Cannes: Mejor guión y Mejor actriz secundaria (Carla Gravina)
GÉNERO Drama
AÑO 1980
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 150 min.
DIRECTOR Ettore Scola
GUIÓN Ettore Scola, Furio Scarpelli, Age
MÚSICA Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Jean-Louis Trintignant, Serge Reggiani, Stefania Sandrelli, Ombretta Colli, Carla Gravina
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Dean Film / Cocinor / Marceau
PREMIOS 1980: Festival de Cannes: Mejor guión y Mejor actriz secundaria (Carla Gravina)
GÉNERO Drama
SINOPSIS
En una terraza de Roma se reúne un grupo de personas.
Algunos son amigos, otros conocidos y otros se acaban de conocer. Todos son
intelectuales y pertenecen a la clase media. En una de esas reuniones se
encuentran Enrico, un guionista en crisis, Amedeo, un productor, Luigi, editor
y periodista, Sergio, un ejecutivo de TV, Galeazzo, que acaba de regresar de
Venezuela, Bruno, productor de anuncios de TV, y Mario, un diputado del Partido
Comunista. (FILMAFFINITY)
TRAMA
Nel corso di una sera mondana in una terrazza romana,
si intrecciano le vite e le esperienze dei personaggi presenti, accomunati
dall'età non più giovanissima e dal lavoro nella comunicazione. Tra loro c'è
Enrico, uno sceneggiatore che, nonostante la moglie tenti di risollevarlo,
versa in una profonda crisi che lo porterà in una casa di cura. Amedeo fa il
produttore e, per scelta, finanzia solo film popolari di serie B. Seguendo le
velleità della moglie, prova a dedicarsi a un'opera più ambiziosa, ma
l'insuccesso lo farà tornare sui suoi passi. Luigi, un giornalista lasciato da
sua moglie, sconsolato si lascia andare fino a perdere anche il lavoro. Sergio,
che sognava di diventare uno scrittore, si è accontentato di un piccolo lavoro
in televisione, dove non viene stimolato e cede al peso della routine.
Galeazzo, ormai anziano e deluso dalla sua patria e da quanti un tempo
considerava amici, vuole smettere di fare l'attore e tornare in Venezuela, dove
ha vissuto per un periodo in cerca di fortuna. Mario, ex partigiano, è
diventato un deputato del partito comunista, ma vede naufragare giorno dopo
giorno tutti gli ideali per i quali ha combattuto e, ormai in crisi, vive con
leggerezza la storia d'amore con Giovanna, lasciando che tra loro ci siano
soltanto quei brevi incontri sulla terrazza nelle belle serate romane…(1)...[i]
La terrazza è un
film sulla crisi del cinema italiano e più in generale sulla crisi della
società italiana ai primi degli anni Ottanta, il tutto reso emblematico
dall’analisi approfondita di alcuni personaggi. La terrazza è universalmente
considerato il film che conclude l’esperienza della commedia all’italiana, che
prende il via da I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli. Dopo questo film si
continueranno a girare commedie (come dice Nanni Moretti è sempre il tempo di
fare una commedia!), ma non saranno più ascrivibili al periodo classico e
avranno caratteristiche diverse. Ettore Scola realizza uno dei suoi capolavori,
un punto fermo della sua filmografia, che tenta di replicare molti anni dopo ne
La cena (1998), dove compie un’analisi spietata della società contemporanea. La
terrazza è il luogo dove si ritrova un gruppo di intellettuali romani e da una
serata in compagnia parte l’espediente tecnico per analizzare diverse
esistenze. Il regista ripete più volte la scena d’attacco per poi puntare
l’occhio della macchina da presa su uno dei personaggi e raccontare i motivi
della sua crisi. Jean-Louis Trintignant è uno sceneggiatore di commedie che non
riesce più a scrivere e polemizza con Stefano Satta Flores, parodia del critico
intellettuale. Scola mostra la crisi creativa dello scrittore e caratterizza l’ossessione
di un produttore (Ugo Tognazzi) che vuol sapere soltanto se ciò che sta
scrivendo fa ridere. Tognazzi è la macchietta di un produttore incolto che fa
film volgari, ma accetta di girare un film intellettualistico per risolvere la
crisi coniugale con la moglie (Ombretta Colli). Marcello Mastroianni è un
giornalista politico in crisi sul lavoro (troppo accomodante) e negli affetti,
perché la moglie (Carla Gravina) pretende una pausa di riflessione e pensa
soltanto al lavoro televisivo. Serge Reggiani è un consigliere culturale Rai
che si vede ridurre ufficio e potere dall’avanzata di raccomandati e produzioni
statunitensi che non condivide. Vittorio Gassman è un politico comunista in
crisi come il suo partito che cede alla tentazione di un’avventura
extraconiugale, si innamora di Stefania Sandrelli e vive una storia d’amore
lacerata da dubbi e pentimenti.
La terrazza è il
film del fallimento e della crisi di una generazione, profondo e malinconico,
denso di citazioni colte, al punto che ogni singola frase (anche in sottofondo)
potrebbe rappresentare lo spunto per un film autonomo. Nella terrazza si
consumano polemiche sul cinema, si fa ironia sui critici intellettuali che non
amano le commedie, si punta il dito sugli attori falliti che tornano dall’America
senza aver avuto successo e si stigmatizza lo stato di salute della commedia
all’italiana. Il film è un eccezionale contenitore di idee, bisognerebbe
studiare ogni dialogo e persino le frasi sussurrate per comprendere un’epoca
storica descritta con abbondanza di particolari. Citiamo la sora Lella,
portinaia del palazzo dove vive Trintignant che si rivolge a un fruttarolo
usando le parole dei critici che disprezzano la commedia. Lo scrittore in crisi
rinfresca le idee al rullo della macchina da scrivere sotto l’acqua del lavabo,
dalle sue battute non vengono fuori parole ma immagini di Charlot, Totò,
Marilyn e infine Stalin (così il critico sarà contento). Trintignant inventa al
telefono con Tognazzi una finta storia sui neoconformismi e sulla colonizzazione
culturale americana, ma soprattutto improvvisa una sceneggiatura volgarissima
che al produttore piace, perché fa ridere. Il cruccio esistenziale dello
sceneggiatore è che non può scrivere cose che non fanno ridere. L’episodio con
protagonisti Marcello Mastroianni e Carla Gravina è emblematico, ci sono frasi
stupende che sottolineano un amore in crisi, come Questa cena non avrà ricordi,
ma tutto il dialogo è un capolavoro di incomunicabilità. Il marito parla di
sentimenti, la moglie di lavoro, entrambi comprendono che per il loro amore non
c’è futuro. Serge Reggiani dà vita a una maschera tragica da funzionario Rai
che muore suicida sotto la neve di scena di Capitan Fracassa perché non
comprende più il suo lavoro, si sente inutile in un’azienda che pensa soltanto
al denaro. Il film lancia frecciate alla sinistra italiana e difende il ruolo
dei cineasti: La Rivoluzione non la fa chi dovrebbe, perché la dovrebbe fare il
cinema? Tognazzi è un perfetto produttore volgare, fa un film che non comprende
e che non apprezza, finto intellettuale, trasgressivo, che cavalca una moda,
solo per compiacere la moglie. Basta ridere! Bisogna mettersi al passo! Alla
critica piacciono i film drammatici! Ma non crede neppure lui a quello che
dice, anche perché non ha capito niente del film. Gassman dà vita a una
toccante figura di politico innamorato, la crisi del partito comunista è anche
la sua crisi di borghese che non se la sente di far soffrire la moglie per una
passione da diciottenne. Scola cita pure Totò in una scena al bar dove Gassman
e la Sandrelli conversano di spalle per non far capire che sono insieme. Lo
scandalo scoppia ugualmente perché l’onorevole finisce sulla copertina di Eva
Express. Emblematica la domanda che si pone il politico: È lecito essere felici
anche se questo crea infelicità? Da citare anche una parte onirica dove Gassman
pensa di fare un discorso all’assemblea per illustrare il suo tormento
interiore ai compagni. Nel finale tutti i personaggi si ritrovano in terrazza,
vediamo anche le comparsate amichevoli dello storico Lucio Villari e del
regista Ugo Gregoretti. Il regista non dà risposte, continua a lanciare
provocazioni e riprende con freddezza l’esplodere dei conflitti. Questa è la
forza del film: rappresentare una situazione, indicare contraddizioni e crisi,
porre domande e dubbi, senza essere didascalico. Tognazzi vorrebbe ricominciare
a far ridere, ma lo sceneggiatore si ribella. Fa ridere? Con questa domanda hai
distrutto la mia vita! Grida. E sembra impazzito. Un attore in crisi decide di tornare
in Venezuela e di mollare tutto perché i suoi compagni sono patetici. Il film
termina con una serie di canzoni popolari che gli uomini interpretano al piano
tra di loro, mentre le donne conversano. La macchina da presa esce con
discrezione dalla finestra e lascia i personaggi alla loro vita che in ogni
caso deve andare avanti.
La terrazza viene
definito una sorta di post scriptum alla storia della commedia all’italiana
(Lourcelles), fa vincere la Palma d’Oro a Cannes a Carla Gravina come miglior
attrice non protagonista e rappresenta il coronamento dell’opera di due grandi
sceneggiatori come Age e Scarpelli.. Gordiano Lupi.(2)
Credevamo a un futuro diverso e non ci siamo accorti
che il futuro è già passato”. “Non sei importante per
nessuno, nemmeno per te”. “Stai sempre in cattedra, come tutti i falliti”. Queste ed
altre considerazioni, queste ed altre accuse vengono pronunciate in C’eravamo
tanto amati, ma sarebbero potute stare tranquillamente in bocca a tutti quegli
intellettuali, veri emblemi di ipocrisia, che costellano non soltanto il mondo
delle terrazze di Scola, ma in generale quello delle terrazze del “palazzo” e
soprattutto dello strapotere della (dis)informazione. Sono proprio quegli
stessi che oggi si sciacquano la bocca recitando a memoria le staffilate degli
aforismi di Flaiano, senza dire a nessuno che lo scrittore li aveva immortalati
in necrologi senza appello; sono quegli stessi che scrivono saggi come Goethe
sulla base di veline redatte dai soliti “negri” degli uffici stampa; sono
quegli stessi che non vedono e leggono niente e danno l’impressione di sapere
la Treccani a memoria. Sono quegli stessi che, pestati a sangue da Scola, Age e
Scarpelli in La terrazza hanno cercato (ma come suonano ridicole le motivazioni
e i distinguo) di tirar fuori ogni artiglio per difendere i loro “particulari”
di casta. I “soliti noti” padroni della “cultura” in Italia, che si palleggiano
da quarant’anni le Presidenze come i politici i Ministeri, non potevano non
sentirsi offesi sia dal clima di un film che li smascherava, sia dalle
chiacchiere della loro vuota esistenza mondana: “Il meglio di noi è soltanto
ciò che gli altri immaginano di noi”. “Siete manutengoli del consenso”, “i
privilegiati depressi fanno più schifo dei privilegiati contenti”, “Dürer non e
una marca di birra”, e così via. Per quanto gli stessi autori di La terrazza
abbiano tentato di attenuare, con spiegazioni “a posteriori”, il tiro delle
loro accuse, non c’è dubbio il film mette alla berlina l’arrivismo, il
velleitarismo, la demagogia dell’intellighentia nostrana.
[...] In
Italia, un film con questi contenuti non poteva che fare notizia, stimolare la
discussione, scatenare la polemica e determinare persino interpretazioni che
fuggivano per la tangente. Non c’è praticamente giornale o settimanale italiano
che non abbia dedicato le sue colonne a La terrazza. Molte sono state le
interviste a Scola, numerosi i dibattiti. Tanto clamore, più che dall’argomento
in sé, è stato causato dal modo con cui l’argomento è stato affrontato. Non era
certo la prima volta che il cinema si interessava del problema degli
intellettuali e, in quelle occasioni, non si erano mai scatenate polemiche così
aspre. Forse non si è perdonato a Scola il fatto che, per la prima volta, ad
entrare in casa di certi intellettuali fosse un autore etichettato come
“comico”, quindi “non autorizzato”. In realtà Scola aveva già scritto molte
storielle sulla categoria, durante gli anni del “Marc’Aurelio”; come
sceneggiatore, li aveva qua e là sbeffeggiati, per esempio, in Fantasmi a Roma
o in I mostri; come regista ce ne aveva dato un assaggio in C’eravamo tanto
amati, ma anche in Il commissario Pepe. Solo che lo aveva fatto in toni, diceva
la critica, di una “comicità greve”, tale da non potere essere presa neppure in
considerazione. Qui in La terrazza, Scola prende invece il toro per le corna
“facendo sul serio”, in maniera più approfondita e adoperando un humour più
sottile. Colpisce i personaggi al cuore e li smaschera, dalla macchietta
all’uomo, fino a renderli persino identificabili, oltre che riconoscibili.
Sono stati in molti, quindi, a sentirsi (Scola, forse, non volente) nell’occhio
del mirino di un “J’accuse” generalizzato. C’è stato, perciò, chi ha reagito
istericamente, chi si è scoperto, chi si è barricato, chi si è semplicemente
allineato al coro dei dissensi tagliando corto con attacchi indiscriminati.
Quasi nessuno ha tenuto conto di quelle che erano le intenzioni dell’autore,
ampiamente desumibili da questa dichiarazione, che assumiamo come
esemplificativa di tante altre: “La terrazza è il luogo dove, nelle sere
d’estate, gli intelligenti romani cenano in piedi. Sono intellettuali, sono
borghesi, sono preoccupati: perché sono in età pensionabile, perché il loro
prestigio è in declino, per calo d’ispirazione creativa o per mancanza di
progetti culturali, per delusione da rivoluzioni mancate o per rimorsi da
complicità prestate a misfatti culturali. Ma conoscono la storia e sanno che,
quando la borghesia è sembrata sul punto di dover cedere il suo potere ad altre
classi, le ha piuttosto assorbite, si è trasformata, ha infine rafforzato il
suo ruolo. Ha lasciato le sue scrivanie ai figli e, adesso, alle mogli. Questo
li consola, insieme alla capacità, tutta borghese, di analizzarsi con lucidità
e ironia. Incapaci di tragedia, curano la loro nevrosi parodiando se stessi. È
un funereo diletto, che però li salva. Il film dovrebbe essere il diario di
queste strutture dell’inganno, tenuto dagli eroi del lavoro culturale, nell’ora
del “tramonto”. [...] Mi occupo di una particolare fascia di questa generazione
di cinquantenni che ha a che fare con il mondo della comunicazione e quindi
con le responsabilità connesse a questa comunicazione. Sono personaggi,
appunto, che operano attraverso la stampa, il cinema, il teatro, la
televisione, e anche la politica – le commissioni culturali dei partiti – e
quindi si pongono delle domande, un po’ espresse, un po’ inespresse, un po’ a
loro stessi, un po’ agli altri: questa informazione che loro hanno portato
avanti, è stata anche una formazione giusta? Quello che andava fatto per
partecipare alla costruzione della coscienza collettiva è stato fatto? Non si
poteva fare qualcosa di più? Credo che questa sia oggi, nei vari settori
culturali, la domanda che dobbiamo porci. Cioè gli intellettuali che hanno
questa responsabilità – sia che scrivano un romanzo, che facciano un film, che
programmino una trasmissione televisiva, che si occupino della politica culturale
di un partito – di fronte al pubblico, di fronte alla cosiddetta massa, che
tipo di responsabilità hanno avuto? Come sono riusciti a migliorare, a formare
questa coscienza collettiva? La domanda investe anche i critici cinematografici.
Sono sicuri i critici cinematografici d’aver fatto quello che dovevano, quello
che la loro professione richiede? Non solo di mediazione tra l’opera e il
pubblico, ma anche di esatta considerazione di quello che è il pubblico e di
quello che è l’opera. I critici conoscono il pubblico? Io leggo spessissimo,
per esempio, questa frase nelle critiche cinematografiche: “L’autore ha fatto
molte concessioni al pubblico” oppure “molte concessioni alla platea”.
Personalmente, io credo che vadano fatte tutte le concessioni al pubblico e
alla platea e nessuna al critico cinematografico. Quindi ecco che già non ci
intendiamo sul linguaggio, perché evidentemente il critico inconsciamente
disprezza il pubblico. Invece io credo che un autore non debba assolutamente
disprezzare la platea, anche perché nella parola platea non c’è nulla di
negativo, anzi, è proprio quella coscienza collettiva che tutti dobbiamo
rispettare, che tutti dobbiamo contribuire, semmai, a migliorare”.
Sono, questi, interrogativi che La terrazza propone
puntualmente, senza però la presunzione di dare soluzioni. Ponendo tali domande
sulla responsabilità degli intellettuali, Scola non poteva non approdare
obiettivamente che ad un affresco di negatività fallimentare. Anche in La
terrazza il discorso è intessuto con il consueto e imprescindibile registro di
un umorismo che raggiunge esiti di sublimazione della vicenda, elevando i
personaggi e le loro storie a valori universali, coniugando il comico con il
tragico e facendo scaturire l’uno dall’altro. Non a caso Mario, parafrasando
Pirandello, dice: “Ormai siamo tutti così. Personaggi drammatici che si manifestano
solo comicamente”. [...]
Piermarco De Santi, I film di Ettore Scola, Gremese,1987.(3)[ii]
CITAS:
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